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La Sindrome da Distress Respiratorio Acuto (ARDS) identificata nel 1967 è stata definita inizialmente su criteri clinici radiologici. Nel 2011 un gruppo di esperti, per lo più di estrazione intensivistica, ha elaborato una nuova definizione (classificazione di Berlino) pubblicata nel 2012. La nuova definizione diagnostica si caratterizza per la riclassificazione delle classi di gravità (secondo il grado di ipossiemia), enfatizza la valutazione obiettiva dell’origine dell’edema (esclusione di coinvolgimento primitivo cardiaco) e la tempistica (comparsa della sindrome entro una settimana dall’identificazione di un fattore clinico scatenante o dall’insorgenza o peggioramento dei sintomi respiratori).  
La sindrome, espressione progressiva e spesso evolutiva di una serie di cause dirette ed indirette, non riesce ad essere racchiusa solamente in classi di gravità. L’ARDS presenta diverse espressività che possono influenzare la risposta alla terapia e quindi la prognosi a breve e lungo termine. Questa variabilità è da tener sempre presente sia nella gestione clinica che nella valutazione dei risultati dei diversi studi clinici (1).
Recentemente Schenck e collaboratori hanno analizzato i dati di una casistica di 4.361 pazienti affetti da ARDS provenienti da 6 studi randomizzati e controllati (ARDS Network randomized controlled trial: ARMA, Alveoli, FACT, Alta, EDEN, SAILS). Gli autori hanno escluso gli studi che prevedevano solo una valutazione nella fase tardiva di malattia; in particolare i pazienti considerati sono stati classificati considerando una forma “rapidamente migliorativa” di ARDS (riARDS) definita da un PaO2:FiO2 > 300 al primo giorno di studio e/o libera da ventilazione meccanica per le successive 48 ore. Tutti i pazienti che non rientravano in questo sub-fenotipo venivano classificati come “ARDS > 1 giorno”. L’obiettivo dello studio era di valutare prevalenza, caratteristiche, outcome e variabili correlate al sottotipo riARDS.
La mortalità intraospedaliera e quella a 60 giorni dalla dimissione sono stati considerati come outcome primari. Dall’analisi dei dati si è evidenziato che la probabilità di mortalità era significativamente più bassa nei pazienti con riARDS rispetto a ARDS > 1 giorno (P < ,0001). La mortalità a 60 giorni era minore nei pazienti con riARDS rispetto ai pazienti ARDS > 1 giorno (27 di 265 [10,2%] vs 433 of 1.644 [26,3%]; P < ,0001).
Elemento importante che deriva da questa analisi è che dei 4.361 pazienti valutati il 10,5 % non presentava più i criteri ARDS il primo giorno dopo l’arruolamento. Tale proporzione incrementava progressivamente negli studi raggiungendo il 15,2% nello studio SAILS (2014). Gli autori correlano tale incremento alla diffusione e maggiore utilizzo delle buone pratiche cliniche.
Nei pazienti con riARDS l’utilizzo di vasopressori durante il trattamento era meno comune (98 di 265 [37,0%] vs 867 di 1.644 [52,7%]; P < ,001) e la valutazione APACHEIII era più bassa (80 [64-100] vs 92 [73-112]; P < ,001). La polmonite come fattore di rischio primario era meno comune nei pazienti riARDS rispetto ai pazienti con ARDS > 1 giorno (147 di 265 [55,5%] vs 1.066 of 1.644 [64,8%]; P= ,004].
Paragonando i gruppi secondo i criteri di Berlino, i pazienti con riARDS avevano con maggiore probabilità forme lievi o moderate di ARDS, anche se il 17% presentava una grave ipossiemia allo screening. (PaO2:FIO2: 149 mmHg nei pazienti con riARDS vs 118 nei pazienti con ARDS > 1giorno, P < ,001).
Tra gli outcome secondari gli autori hanno valutato la sopravvivenza libera da ventilatore a 28 giorni, la non permanenza in ICU, giorni liberi da insufficienza d’organo diverso dal polmone. Tutte queste variabili erano significativamente maggiori nel gruppo riARDS rispetto al gruppo ARDS > 1giorno (P < ,0001, per ognuno delle variabili).
Alcuni limiti dello studio sono legati all’analisi secondaria post hoc, alle variabili considerate (esempio mortalità a 60 giorni) e che i pazienti considerati non rappresentano quelli della vita reale, ma provengono dalla banca data di studi precedenti. Gli autori enfatizzano infatti di non sottostimare il ruolo del fenotipo riARDS (estubazione precoce) che può influenzare in maniera non corretta l’interpretazione dei risultati degli studi clinici.
La medicina di precisione è un ideale non spesso perseguibile in terapia intensiva; vero è che una terapia personalizzata necessita innanzitutto di una comprensione minuziosa della fisiologia e della fisiopatologia sottostante ai fini anche di una più precisa stratificazione del rischio.
L’ARDS è una malattia eterogenea e non esiste, al momento, una singola terapia efficace. Già da diverso tempo si cerca di differenziare l’ARDS in sottogruppi secondo criteri singoli o combinati di fisiologia, radiologia, clinica, biologia. I biomarcatori, che potrebbero dare una migliore definizione e prognosi della patologia, al momento sono basati su metodi di ricerca laboratoristica non attuabile al letto dell’ammalato (2, 3).
I diversi fenotipi, e in particolare il fenotipo riARDS, sono da considerare soprattutto negli studi clinici che valutano l’effetto terapeutico di farmaci o di comportamenti clinici, essendo in grado di influenzare la reale stima della risposta in termini di outcome e prognosi.
In conclusione, la riARDS rappresenta un fenotipo in crescita da un punto di vista epidemiologico e di non univoca presentazione; i dati attuali confortano l’ipotesi di un fenotipo non infiammatorio che rispetto a quello iper-infiammatorio richiede un trattamento intensivo ma di minore durata. 

Bibliografia

  1. Kamo T, Tasaka S, Suzuki T, et al. Prognostic values of the Berlin definition criteria, blood lactate level, and fibroproliferative changes on high-resolution computed tomography in ARDS patients. BMC Pulm Med 2019;19:37.
  2. McNicholas BA, Rooney GM, Laffey JG. Lessons to learn from epidemiologic studies in ARDS. Curr Opin Crit Care 2018;24:41-8.
  3. Bos LD, Schouten LR, van Vught LA, et al.; MARS consortium. Identification and validation of distinct biological phenotypes in patients with acute respiratory distress syndrome by cluster analysis. Thorax 2017;72:876-83.