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Spesso, quando si propone ad un paziente di iniziare un trattamento delle apnee ostruttive nel sonno (OSA) con CPAP, la prima domanda che ci si sente rivolgere è: dovrò farlo tutta la vita? La nostra risposta positiva può a volte scoraggiare il paziente e distoglierlo dall’accettare la terapia.

Gli autori dell’articolo in esame osservano nelle loro premesse che i disturbi respiratori nel sonno possono cambiare da notte a notte anche in misura consistente, che alcuni lavori hanno già mostrato la possibilità di un miglioramento dell’OSA dopo uso prolungato di CPAP, e che la nostra incompleta conoscenza dei meccanismi patogenetici delle apnee ostruttive non dovrebbe consentirci di prevedere esattamente come l’OSA possa evolvere dopo una terapia con CPAP. Pertanto, hanno ritenuto che si possa dubitare che, contrariamente a quanto comunemente si crede, la CPAP debba essere sempre raccomandata come trattamento quotidiano definitivo. L’oggetto del loro studio è stata la valutazione dell’effetto a breve termine della sospensione della CPAP in pazienti con OSA. Centoventicinque pazienti con OSA che praticavano trattamento con CPAP da oltre un anno, tutti con una compliance media ≥4 ore/notte, sono stati studiati mediante ossimetria l’ultima di 4 notti consecutive in cui la CPAP era stata sospesa e poi, se la frequenza delle desaturazioni (Oxygen Desaturation Index, ODI) si manteneva ≤10, al termine di due settimane di sospensione della CPAP. Un ODI >10 era considerato indicativo di presenza di OSA. Dopo i primi 4 giorni, un ODI ≤10 si è ritrovato nel 29% dei pazienti. Al termine delle due settimane questa percentuale si è ridotta ad un valore del 7-13% (la percentuale non era definibile con esattezza perché tredici pazienti avevano voluto riprendere il trattamento dopo le prime 4 notti) mentre il punteggio della sonnolenza alla scala di Epworth raggiungeva un valore medio di 12,1. Nel gruppo dei soggetti senza recidiva dell’OSA dopo i primi quattro giorni senza CPAP, la gravità dell’OSA ed il grado di obesità valutati al momento della diagnosi iniziale erano minori che nel gruppo in cui l’OSA si era ripresentata. Un’analisi multivariata mostrava come predittori significativi dell’ODI dopo i primi 4 giorni di sospensione della CPAP un ODI elevato alla diagnosi, una più lunga durata del trattamento con CPAP, una maggiore circonferenza del collo e la condizione di fumatore: questo modello però spiegava solo il 34% del cambiamento dell’ODI.

Gli autori riconoscono alcuni limiti di questo studio, come un certo grado di preselezione dei pazienti o l’uso della sola ossimetria come metodica di valutazione dei disturbi respiratori dopo la sospensione della CPAP, limite, quest’ultimo, che essi ritengono di scarsa importanza poiché i parametri derivati dall’analisi dell’ipossia rappresenterebbero un indice attendibile dei principali disturbi respiratori dell’OSA. In conclusione, ritengono che una quota di pazienti con OSA potrebbe sospendere almeno per brevi periodi la terapia con CPAP, e che valga la pena di ricercare criteri clinicamente utili per identificare questi pazienti.

Come osservato in questo articolo, vari lavori hanno mostrato una ricaduta dell’OSA all’atto della sospensione della CPAP, ma in misura diversa da paziente a paziente e, spesso, con una ridotta gravità rispetto al momento della diagnosi. Classicamente il miglioramento dell’OSA dopo CPAP viene interpretato come effetto di una risoluzione di edemi faringei che consente di ampliare il lume delle vie aeree superiori, o di un ripristino di riflessi protettivi della pervietà delle vie aeree superiori. Come possibile ulteriore spiegazione, gli autori aggiungono che i pazienti con patologie suscettibili di spontanee variazioni di gravità tendono a sottoporsi agli esami diagnostici quando i loro disturbi sono peggiori, motivo per cui è in una certa misura atteso un miglioramento al momento di un controllo a distanza.

I dati riportati non sono del tutto nuovi, ma è nuovo il loro modo di valutarli, che pone l’accento non sui risultati medi, nella popolazione OSA, degli effetti della sospensione della CPAP, molto spesso scoraggianti, ma sui risultati individuali. In questo modo si è focalizzata l’attenzione sul fatto che una parte, seppure minoritaria, di pazienti non presentava recidive dell’OSA dopo breve sospensione del trattamento con CPAP, almeno dal punto di vista dei risultati dell’ossimetria notturna. L’uso di questa metodica di monitoraggio potrebbe rappresentare però un limite del lavoro più importante di quanto riconosciuto dagli autori. Infatti, alcuni pazienti potrebbero avere avuto una forma di OSA posturale, e non avere mostrato ricaduta dell’OSA al momento della sospensione della CPAP per mantenimento di una posizione non supina durante il controllo ossimetrico, ignorato per il mancato monitoraggio della posizione corporea. Inoltre gli autori accennano solo brevemente al fatto che una mancata recidiva dell’OSA, intesa come ODI ≤10, si era accompagnata spesso ad un peggioramento della sonnolenza, molto probabilmente effetto di un peggioramento della qualità del sonno dovuto a disturbi respiratori non desaturanti. Se al 7-13% dei pazienti con ODI≤10 dopo due settimane senza CPAP, si sottraggono i pazienti con recidiva della sonnolenza (il cui numero non è specificato nel lavoro), la percentuale di pazienti senza disturbi diventa molto piccola.

In conclusione, questo lavoro propone una nuova interessante prospettiva sul modo di considerare la CPAP in pazienti con OSA che non dimagriscono né si sottopongono ad altre terapie: non più sempre come un trattamento definitivo da eseguire tutte le notti, ma come un trattamento che in alcuni casi, per periodi di durata da definire, potrebbe anche essere sospeso. Il numero di questi casi sembra essere abbastanza ridotto. Tuttavia, questa è una problematica che merita di essere approfondita perché, se si confermasse che la CPAP può talvolta essere sospesa almeno in modo temporaneo senza ricadute, si potrebbe modificare il nostro modo di presentare la terapia ai pazienti, rendendola immediatamente più accettabile, e migliorare la qualità della vita di alcuni di loro che mal sopportano di praticarla quotidianamente.