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Il problema della diagnostica precoce del tumore del polmone, la cosiddetta prevenzione secondaria, costituisce una "vexata quaestio" iniziata fino dagli anni ’70. Allora ci si rese conto dell’impatto sociale della patologia e del suo incremento progressivo. Le metodiche utilizzate a quell’epoca, radiografia del torace ed esame citologico dell’espettorato, in soggetti a rischio non diedero i risultati sperati ed il problema venne accantonato. In seguito la comparsa della TC negli anni ’90 suscitò nuovi entusiasmi: dopo uno studio pilota (progetto ELCAP della d.ssa Henscke) del 2001 che documentò su 1.000 casi una sensibilità diagnostica notevolmente superiore della nuova metodica in confronto con la radiologia tradizionale, fiorirono tutta una serie di studi su numeri sempre più grandi al fine di documentare l’effettivo beneficio in termini di precocità della diagnosi, di aumento della sopravvivenza del gruppo in studio rispetto al gruppo controllo, di danni eventualmente correlati all’uso delle radiazioni ionizzanti, ed infine il margine di errore che poteva condurre ad interventi demolitivi non giustificati.
I numerosi studi condotti (alcuni anche in Italia) non sono stati in grado di dare una risposta positiva tanto che finora l’OMS non ritiene opportuno consigliare questo screening. Lo scorso anno però sono stati pubblicati i risultati di un ampio studio gestito dal NCI americano coinvolgente complessivamente più di 53.000 soggetti a rischio, suddivisi in 2 gruppi omogenei, il primo sottoposto a TC a basso dosaggio con frequenza annuale ed il secondo, di controllo, alla sola radiografia del torace. La durata media del follow up è stato di 78 mesi. I risultati dello studio hanno documentato una diminuzione del rischio di morte del 20% nel gruppo sperimentale confrontato con il controllo. L’articolo pubblicato su JAMA nel maggio ultimo scorso, si propone una sostanziale metanalisi critica degli studi eseguiti negli ultimi 16 anni utilizzando la TC a basso dosaggio, cercando di far luce sulle ombre che ancora avvolgono l’opportunità di rendere lo screening una prassi consolidata.
L’articolo esegue una disamina molto articolata con un’ottica critica molto obbiettiva. Vengono colte le incongruenze e le disomogeneità legate alla necessità di ottenere risultati significativi in tempi sufficientemente brevi con interpretazioni a volte troppo enfatiche e trionfalistiche poco propense a sottolineare gli elementi negativi. Rimangono comunque elementi positivi che vanno indubbiamente valorizzati. Un fattore essenziale poco sottolineato che merita un chiarimento opportuno è l’utilizzo della TC a basso dosaggio (LDCT). Questa tecnica, a scapito di una modesta perdita di definizione, permette di somministrare al paziente solo 1,5 mSv contro gli 8 di una TC diagnostica ed i 14 di una PET-TC. In complesso è stato calcolato che un paziente in 3 anni di screening riceve circa 8 mSv. Il rischio che si sviluppi una neoplasia è di 1 caso su 2500 pazienti screenati con un tempo di latenza di 10/20 anni. Questo giustifica la necessità di non iniziare lo screening prima dei 55 anni e solo in soggetti con 30 pack/years con una eventuale storia di cessazione dal fumo inferiore ai 15 anni. Gli AA. concludono con una apertura condizionata nei confronti dello screening del tumore del polmone in soggetti selezionati. L’articolo si richiama alle linee guida emanate dall’ASCO e dall’ACCP congiuntamente nel 2011. Queste sottolineano, tra l’altro, alcuni punti che sono fermi anche in un contesto non ancora completamente chiarito.

Lo screening con LDCT può essere consigliato a pazienti di età compresa fra i 55 anni ed i 74 anni, con 30 pack/years con una eventuale storia di cessazione dal fumo inferiore ai 15 anni.

Lo screening non dovrebbe essere offerto al di fuori dei range indicati: in pazienti più giovani per i rischi connessi con l’irradiazione ed in pazienti più anziani per la impossibilità di intervenire terapeuticamente in modo efficace. Il discorso vale anche per soggetti compresi nei range previsti ma gravati da comorbidità che impediscano eventuali procedure diagnostiche o terapeutiche o che abbiano una aspettativa di vita non adeguata.

Il paziente deve essere ben consapevole dei rischi a cui va incontro.

Lo screening deve essere eseguito in ambiente tecnico adeguato da personale esperto di origine multidisciplinare.

Infine deve essere ben chiaro che lo screening non sostituisce in alcun modo l’indicazione ad interrompere l’abitudine tabagica che rimane l’unica prevenzione primaria efficace.

Val la pena di aggiungere che all’ASCO 2012, l’importante assise oncologica da poco conclusasi a Chicago, sono stati ribaditi questi concetti con una particolare attenzione al problema del nodulo polmonare solitario, di origine benigna nella stragrande percentuale dei casi. La diagnostica del nodulo polmonare costituisce un forte elemento di stress psicologico per il paziente, una fonte di rischio di complicanze procedurali (FNAB), e di errore (sovra valutazione) con conseguente danno funzionale inutile. E’ indispensabile che la decisione diagnostica sia oggetto di consulto multidisciplinare da parte di equipe di comprovata esperienza nel campo.
Come si è visto il problema non ha ancora trovato una soluzione soddisfacente ma la tecnologia avanza e sarà in grado presto di darci risposte ora inimmaginabili. Fino ad allora è compito del medico impedire l’uso inappropriate di risorse preziose spiegando al paziente che nessun esame diagnostico è in grado di sostituirsi ad un regime di vita sano ed ad un ambiente non inquinato.