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Apparentemente, l’aver scelto questo articolo per la redazione di un nostro commento potrebbe essere considerato frutto di un colpo di calore estivo. In realtà, si è voluto sottolineare un importante problema educazionale, che investe tutta la medicina e, per quanto ci riguarda, tutte le aree d’interesse della pneumologia: quello delle infezioni ospedaliere. E’ infatti ben noto quanto rilevante sia il peso delle complicanze infettive nel corso di procedure invasive (ventilazione meccanica, endoscopia interventistica) ma anche routinarie (emogasanalisi, toracentesi) che fanno parte della nostra specialità. E’ altrettanto noto quanto frequenza e gravità di tali complicanze possano essere ridotte con una semplice, ma scrupolosa pulizia delle mani e la disinfezione con un antisettico. Pur se ovvia ai tempi nostri, l’intuizione di Ignác Fülöp Semmelweis, il medico ungherese che per primo nel 1847 osservò il repentino crollo dell’indice di mortalità dovuto a febbre puerperale grazie all’igiene e disinfezione delle mani, è stata avversata a lungo, e ancor oggi non è adeguatamente praticata. Più estensivamente, non siamo sempre attenti al fatto che il contatto tra personale sanitario e pazienti costituisce il primo veicolo di diffusione di batteri e virus in corsia, e pur avendone come operatori una discreta consapevolezza, di fatto trascuriamo talvolta l’applicazione scrupolosa dei programmi di lavaggio delle mani. Inoltre, alcuni dati dimostrano che in molti Paesi Occidentali, inclusa l’Italia, non vi sono standard di lavaggio delle mani ottimali. L’applicazione scrupolosa di misure atte a ridurre drasticamente il contagio attraverso le mani porterebbe a significativi risultati: si stima infatti in un 20% l’abbattimento delle infezioni in ospedale. Servirebbe poi diffondere una gestione corretta dei cateteri urinari e di quelli vascolari, e relativamente alla nostra specialità assume un’importanza critica la stretta osservanza di quanto indicato dalle linee guida per l’esecuzione di procedure invasive, sia di base che delle varie sottospecialità, in rapporto alla riduzione del rischio infettivo.
Partendo da questi concetti, ma estendendoli dal lavaggio delle mani di medici, infermieri e operatori sanitari al contatto tra “attori della scena” nel contesto sanitario, specie (ma non solo) ospedaliero, in questo articolo la rivista medica JAMA lancia un appello affinché il saluto scambiato con la stretta di mano tra personale sanitario e pazienti venga vietato, in quanto primo veicolo di diffusione di batteri e virus in corsia. Infatti, al fine di limitare la diffusione delle infezioni riducendo il pericolo del contagio mano-mano non solo tra personale sanitario ma soprattutto tra personale sanitario-paziente-familiare di paziente, Mark Sklansky dell'Università della California propone, in un editoriale recentemente pubblicato dalla rivista JAMA, un’idea che può apparire bizzarra ma sicuramente efficace: sostituire la classica stretta di mano, veicolo ideale per la trasmissione di diversi germi, compreso il Clostridium difficile, uno dei più temuti negli ospedali, magari con un inchino, spingendosi a proporre zone degli ospedali in cui è vietato stringersi la mano. Va ricordato infatti che molti studi hanno già dimostrato che le mani, attraverso la stretta di una mano, sulla quale magari una persona ha starnutito, sono un veicolo ad alto rischio di provocare infezioni.
Sostituire quindi con l’inchino giapponese la stretta di mano. Esattamente, suggerisce Sklansky, come si è fatto per il divieto di fumare, bandito dagli ospedali per colpa dei rischi del fumo passivo, ci si dovrà abituare al “vietato stringere la mano”, grazie ad appositi segnali che indichino in quale luogo è bene evitare la stretta di mano: soprattutto nei reparti, vicino alle sale di medicazione, alle sale operatorie e, per quanto riguarda la nostra specialità, oltre che nelle degenze, in particolare nelle sale endoscopiche, nelle unità di terapia semi-intensiva o comunque nelle aree ove si trovano pazienti ventilati ecc.
Insomma una “nipponizzazione” del saluto in ospedale potrebbe migliorare la qualità di vita dei pazienti se non addirittura, in alcuni casi, allungare la vita stessa evitando, o almeno riducendo la frequenza, di infezioni difficili da trattare. In soggetti spesso anziani, fisicamente compromessi e “fragili” quali sono i pazienti affetti da patologie respiratorie croniche (BPCO, insufficienza respiratoria) o neoplastiche che siamo soliti avere in carico, ciò potrebbe migliorare il decorso clinico e contribuire a ridurre i costi per degenze più lunghe e complesse: in entrambi i casi il vantaggio sarebbe evidente.
Certo non sarà facile cambiare un’abitudine millenaria, soprattutto per noi neolatini, come quello della stretta di mano, e sicuramente non sarà facile nei primi tempi abituarsi, ma chissà che alla fine non sia anche questa una via giusta, peraltro a costo zero, per migliorare l’igiene e la salute della collettività!